Non circola su Jacques Becker nessuna teoria, nessuna analisi dotta, nessuna tesi. La sua opera come la sua persona scoraggiano l’esegeta; tanto meglio.
François Truffaut, I film della
mia vita
Jacques Becker, questo
sconosciuto. Fino a qualche settimana fa, lo ammetto, il suo era un nome che,
almeno come regista, mi diceva poco o niente. Esisteva, certo, il Becker
assistente di Jean Renoir, collaboratore e complice di tanti capolavori,
responsabile addirittura in prima persona di inquadrature memorabili come
quella della fuga sulla neve in La grande
illusione (1937). Ed esisteva, naturalmente, il Becker intervistatore “per
caso”, che si trovava coinvolto dai “Cahiers du Cinéma” in una delle più belle
conversazioni con il suo amico Howard Hawks (tradotta ora nel volume La politica degli autori. Le grandi
interviste dei “Cahiers du Cinéma”, minimum fax, 2000). Ma il Becker
regista? C’è voluto un incontro del tutto fortuito con il suo Grisbi (Touchez pas au grisbi, “non toccate il bottino”) per svelarmi
questo maestro dimenticato, questo Autore capace, almeno ai miei occhi, di
coniugare insieme i meriti del cinema francese con la forza dei generi
americani. E il suo film, a torto o a ragione, non ho allora potuto fare a meno
di leggerlo proprio sotto il duplice segno di Renoir e Hawks. Ma andiamo con
ordine.
Fra le tante caratteristiche che
rendono Hawks un narratore unico c’è la capacità di catturare un mondo ed
esporne i conflitti basilari in una manciata di minuti, a volte persino
secondi. I pescatori di Tiger Shark,
i corridori di The Crowd Roars, gli
aviatori di The Dawn Patrol: tutti
personaggi che ci pare di conoscere da sempre e che invece ci vengono
presentati in prologhi fulminanti, in cui spesso già si dibattono fra la vita e
la morte. Becker è senz’altro meno estremo, ma non meno svelto: gli bastano
quattro inquadrature e ha già creato un universo. “Parigi 1953, nell’ambiente
della ‘mala’...”, ci informa una didascalia iniziale. Da un campo lunghissimo,
privo di figure umane riconoscibili, passiamo in dissolvenza a un primo piano
del nostro protagonista, Max (Jean Gabin). Il conflitto fondante, uno dei temi
che attraverserà tutta l’opera, è già qui, in questa transizione da uno spazio
anonimo a un volto riconoscibilissimo: la nostra storia, come quella di tanti
altri noir, sarà quella di un personaggio che dovrà affrontare uno spazio
ostile, notturno, alienante. Ma se con il primo stacco Becker ha creato un
percorso morale, con quello successivo mette invece già in azione il motore
narrativo, “romanzesco”, del film: un inserto ci informa di un bottino che,
possiamo esserne certi fin da subito, sarà l’elemento trainante della vicenda
(il MacGuffin, per dirla con Hitchcock). Un tema e un pretesto narrativo, ci
manca soltanto il contesto dell’azione, luoghi e personaggi, che appunto ci
vengono illustrati dall’inquadratura successiva, in cui la macchina da presa, accompagnandosi
con un elegante carrello, situa il nostro protagonista in uno spazio di
partenza ben preciso. C’è già tutto, a rigore per fare un film basterebbero
queste quattro inquadrature, che come in Hawks racchiudono un mondo, i suoi
conflitti e i suoi personaggi. Ma è qui, invece, che emerge l’anima renoiriana
del film, la capacità di dilatare i tempi in funzione tanto narrativa quanto
descrittiva. Il lavoro che Becker conduce su ogni singola scena, infatti,
consiste nell’ampliarla al di là della sua funzione più immediata,
arricchendola di notazioni realistiche che travalicano senz’altro le strettoie
del racconto di genere. Il film, non a caso, è composto da sole 24 scene (Rififi di Jules Dassin, per dire, ne ha
il doppio), ma l’effetto finale è tutt’altro che “meccanico”, proprio perché
all’interno di ogni sequenza si moltiplicano le divagazioni, i rimandi e i
personaggi di contorno. Si vedano, tanto per fare qualche esempio, i clienti
seduti da mère Bouche accanto al tavolo di Max, o il venditore ambulante di fiori,
o l’elettricista manesco del Mystific. (Divertente pensare che, ai tempi delle
prime aiuto-regie, Renoir spesso chiedeva proprio a Becker di interpretare
piccoli ruoli di questo tipo, come il poeta in Boudu salvato dalle acque). Gli stessi cambi di scena, peraltro,
tendono a non spezzare la continuità del racconto, e il film riduce davvero al minimo
il ricorso alle ellissi, sforzandosi invece di rendere significativi anche quei
momenti “morti” come i viaggi in auto, i parcheggi e i saluti. La serata di Max
e soci, in altre parole, ci viene raccontata minuto per minuto, spostamento per
spostamento, in modo tale che quell’esca narrativa iniziale (il “grisbi”) abbia
tutto il tempo di decantare: l’intreccio è per così dire “arioso” proprio
perché gli eventi non sembrano seguire una logica predeterminata, non ci
appaiono troppo artificiosamente concatenati. L’effetto di realismo nasce
proprio da qui, da questo processo di sottrazione e diluizione operato sulle
regole stesse del genere. Complice anche la presenza di Gabin, la memoria non
può che correre appunto a un film di Renoir, French Can Can, che prende anch’esso le mosse dall’apparente
“registrazione” di una qualsiasi serata dei suoi personaggi. E poco importa che
French Can Can esca soltanto qualche
mese più tardi dell’exploit di Grisbi,
quel che conta è il metodo, tipicamente renoiriano, non il merito, tanto di
Becker quanto di Renoir.
Alla strutturazione del tempo,
comunque, si affianca un lavoro sugli spazi non meno elaborato e significativo.
Le peculiarità della prima ambientazione, nel ristorante di mère Bouche, si
colgono però soprattutto in rapporto alla scena successiva, ambientata in un
locale ben diverso, il night club Mystific. Il ristorante, che non a caso è il
ritrovo preferito di Max, è caratterizzato da un’atmosfera familiare,
accogliente, tanto riservata che la padrona arriva persino a scegliersi i
clienti e abbassare la serranda per tutti gli altri. Lo spazio, su un solo
piano, è luminoso e ordinato, percorso da movimenti di macchina che
accompagnano i personaggi. Le inquadrature, in particolare, non mettono mai in
discussione la centralità dei personaggi, ripresi spesso in coppia ma comunque
a distanza ravvicinata, anche per caratterizzare da subito e a tutto tondo i
nostri protagonisti.
L’ambiente del night, per
converso, è quello equivoco e impersonale che caratterizza molti dei luoghi e
non-luoghi tipici del noir. Intanto la struttura stessa dell’edificio non è mai
esattamente chiarita, perché il percorso dei personaggi passa per scale, porte
e corridoi, che insieme alle finestre ridefiniscono costantemente la nostra
percezione dello spazio, frammentato nelle varie inquadrature. Scopriamo, per
esempio, che dall’ufficio di Pierrot ci sono ben due finestre da cui, senza
farsi scoprire, è possibile tener d’occhio sia la strada che la sala da ballo:
ogni personaggio, in pratica, è sempre potenzialmente spiato a sua insaputa. A
un’illuminazione contrastata, più tetra e ambigua, si aggiunge poi un diverso
modo di comporre il quadro, anch’esso volto a evidenziare la caotica
promiscuità dell’ambiente: i personaggi, spesso disposti a L, non sono più il
fulcro della messa in scena, perché attraverso la profondità di campo i loro corpi
tendono a diventare tasselli di una composizione formale quasi “decorativa”,
smarrendo in ciò la propria individualità (e infatti diminuiscono i piani
ravvicinati, mentre abbondano mezze figure e piani americani).
Senza arrivare ai soliti discorsi
sull’alienazione metropolitana, è insomma evidente che Becker giustappone
all’interno del racconto spazi “ospitali” (materni?) ad altri invece sotterraneamente
“ostili”. Due, però, sono le precisazioni da far subito. La prima, figurativa,
riguarda il rapporto con le due tradizioni cinematografiche in cui il film come
dicevamo si inserisce: il noir di derivazione americana e il realismo alla
francese. La rappresentazione degli spazi urbani, infatti, sembra quasi voler
mediare fra queste due scuole, scegliendo ambienti e prospettive anche
angoscianti, ma senza alcuna tentazione “espressionista” di enfatizzarli (il
massimo che Becker si permette è la visita notturna di Ramon a casa di Max,
vagamente hitchcockiana). Persino il senso di claustrofobia è sapientemente mitigato
con l’inclusione di interni girati dal vero, in cui quindi, come in Renoir,
finestre e vetrine si affacciano direttamente su una Realtà che, comunque, non
è mai rimossa, e anzi diverrà il teatro della resa dei conti finale,
curiosamente ambientata in aperta campagna. (Non conosco abbastanza il Renoir
“nero” per avventurarmi in raffronti con film come La nuit du carrefour, ma il discorso meriterebbe senz’altro di
esser ripreso in altra sede.)
D’altra parte, se per il momento
non arriviamo ancora all’astrazione del polar
alla Melville, è anche perché il film intavola costantemente una tensione
dialettica fra spazio e attore, ambiente e personaggio. È la recitazione, in
altre parole, a tenere a distanza qualsiasi tentazione formalistica, sfruttando
anche quei meccanismi di riconoscibilità divistica tanto cari al cinema
americano: Jean Gabin, presente quasi in ogni scena, diventa la nostra guida
d’eccezione in questo susseguirsi di immagini anche molto ambigue e complesse. Il
gusto per la dilatazione e la divagazione è insomma costantemente bilanciato
dalla presenza del divo-icona che accentra su di sé lo sguardo del pubblico.
La recitazione, come l’ambientazione,
è d’altro canto costruita accostando stili più o meno opposti. I due
protagonisti, Max e Riton, amici per la vita, non potrebbero infatti dimostrare
comportamenti più diversi. Per tornare alle nostre convergenze hawksiane,
potremmo rifarci a John Belton (Cinema Stylists,
Scarecrow, 1984) e osservare come la recitazione di Jean Gabin somigli in
questo film a quella di John Wayne: la sua presenza fisica catalizza
l’attenzione proprio perché ogni gesto, così misurato, sembra sottintendere un
perfetto controllo di tutti gli elementi all’interno dell’inquadratura. Il suo
personaggio, almeno per la prima metà del film, non prende quasi mai nessuna
vera iniziativa (nemmeno con le donne), non dà mai il via a una scena o a un
dialogo, ma si limita in genere a reagire,
dimostrando proprio in questo modo una sorta di superiore equilibrio rispetto
ai personaggi che lo circondano: esemplare, in questo senso, la scena nel
camerino di Josy, con la ragazza che gli getta le braccia al collo; o anche
quella in taxi, quando l’autista lo avverte di essere pedinato. Il suo corpo, al
tempo stesso, non è mai completamente immobile, ma è anzi continuamente animato
da piccoli gesti, privi di qualsiasi affettazione e proprio per questo così
potenti: bastano un cucchiaino che gira il caffé, due passi nell’ufficio di Pierrot,
addirittura un’alzata d’occhi per renderlo ogni volta padrone della scena. Non
a caso il suo rapporto con lo spazio circostante è interattivo, nel senso che il personaggio è costantemente in grado
di plasmarlo e personalizzarlo a proprio vantaggio: sceglie la musica nel
juke-box, apparecchia la tavola, prepara il giaciglio per la notte. E il suo
appartamento, arredato con tanta cura, diventa in questo senso autentico
contraltare per l’anonimo alberghetto in cui dimora invece Riton. Il
personaggio dell’amico, infatti, è caratterizzato al contrario da una passività
pressoché totale, che gli permette al massimo di abbassare lo sguardo nei
momenti di imbarazzo. La sua immobilità, sia al ristorante che al night club, ce
lo presenta da subito come incapace di controllare lo spazio circostante,
come una figura totalmente dipendente dal socio, insieme al quale è quasi
sempre inquadrato in coppia. (L’unica scena in cui la sua gestualità acquista
una qualche convinzione, neanche a farlo apposta, è quella in cui Max al
telefono gli spiega come comportarsi.) Ma questa comunione si spezza, in
qualche modo, proprio nella scena in cui i due mangiano insieme, una sorta di
ultima cena (e il pasto in comune, come ci ricorda Il buco, è per Becker momento fondamentale in ogni amicizia). Max,
che al ritorno dal night è scampato a un tentativo di sequestro ordito da
Angelo, spiega infatti all’amico che il bottino è in pericolo, e che sono state
proprio le chiacchiere di Riton con Josy a metterli nei guai. Il gioco
dialogico cambia marcia, perché da qui è Max a prendere l’iniziativa, ma Riton
non è invece in grado di reagire (“non capisco, Max”). Le inquadrature che,
come abbiamo visto, erano molto spesso “a due”, dividono adesso i personaggi,
proprio perché Max rinfaccia a Riton di non potersi più fidare di lui.
Non si creda, però, che la
caratterizzazione di Gabin spinga direttamente il personaggio di Max verso il
mito, perché Becker invece lavora al tempo stesso in direzione opposta.
Intanto, come abbiamo visto, l’energia del protagonista non emerge tanto
attraverso prove di forza violenta (la rapina, di fatto, avviene prima dell’inizio del racconto), quanto
attraverso le azioni più banali di tutti i giorni, a tavola o in camera da
letto. Inoltre, come evidenziato da Truffaut già all’epoca, Grisbi è anche un film sulla vecchiaia di
un antieroe, su un uomo ormai stanco e disilluso che non chiede altro che di
godersi finalmente la tanto sospirata pensione. Un personaggio che anticipa
quello di Bob le flambeur di Jean-Pierre
Melville (1956), ma che nella deliziosa trovata degli occhiali da vista non può
che rimandare a She Wore a Yellow Ribbon di
John Ford (ed ecco riaffiorare, di sua spontanea volontà, il parallelo
Gabin/Wayne). Soprattutto, però, si tratta del personaggio di un uomo coerente
con se stesso, che ha deciso di invecchiare con dignità, senza rendersi
ridicolo o dover rinunciare ai propri principi. È proprio da questi
presupposti, pazientemente edificati nella prima metà del film (“descrittiva”),
che nasce il dramma vero e proprio, che si innesca soltanto nella seconda metà:
inetto come si è già dimostrato, Riton pensa di poter sistemare le cose con
Josy e si fa invece catturare da Angelo, che lo usa come ostaggio per ricattare
Max. O l’amico o il grisbi. Becker qui rischia moltissimo, e lo fa nel più
sfacciato dei modi: dopo cinquanta minuti di cinema puramente fenomenologico, di fatti concreti,
sceglie invece di filmare il pensiero di
Max, e lo fa attraverso due brevi monologhi interiori. L’espediente, che può
convincere o meno, è estremo, proprio perché sembra contraddire l’impostazione
stilistica della messa in scena, e quest’asprezza per l’appunto va proprio a
sottolineare (consapevolmente?) lo scarto a livello narrativo: mentre finora
abbiamo assistito a un racconto puramente comportamentale, privo di qualsiasi
risvolto “psicologico”, in cui non si chiedeva ai personaggi né di evolversi né
di fare delle scelte, qui per la prima volta Max si trova invece davanti a un
dilemma, e il racconto acquista appunto una dimensione per così dire “morale”. Come
scriveva già Jacques Doniol-Valcroze all’uscita del film: “Il monologo
interiore di Max quando scopre il rapimento di Riton ha causato qualche risata
in sala, ma azzarderei che si è trattato di un riso nervoso, commosso, a un passo
dalle lacrime” (“L’Observateur”, 25 marzo 1954).
Proprio in questa scena, fra
l’altro, torna il tema musicale del film, introdotto fin dalla prima
apparizione del protagonista, ripreso poi nella scena in cui Max mostra il
grisbi a Riton e usato ora per commentare la scelta che Max si trova a dover
fare: in un tessuto narrativo crivellato di apparenti divagazioni, il motivo
musicale sembra innanzitutto tenere insieme i tre elementi basilari del dramma
(Max, Riton, il grisbi), e con la stessa funzione riapparirà ancora nella scena
dello scambio, in cui appunto commenterà le tre inquadrature che sanciscono la
rinuncia di Max al bottino pur di avere indietro l’amico sano e salvo.
Proprio la resa dei conti finali,
fra l’altro, si propone come definitivo banco di prova per tutte le strategie
sia narrative che stilistiche fin qui individuate. Intanto la dilatazione
temporale: su 96 minuti complessivi, la scena ne occupa addirittura 13, per un
totale di 131 inquadrature. Sicuramente il ritmo di montaggio è accelerato
rispetto al resto del film, specie durante le sparatorie (la durata media di
un’inquadratura è di circa 6 secondi, contro una durata abituale di 9), eppure
a differenza di quanto avrebbe fatto magari un Hitchcock o un qualsiasi
hitchcockiano, il montaggio non sembra particolarmente interessato a giocare
con inserti o punti di vista che accrescano la tensione verso il momento
culminante. La suspense è innescata all’inizio, quando vediamo le bombe in mano
agli uomini di Angelo, ma come al solito Becker la lascia poi decantare,
prediligendo i tempi lunghi. La macchina da presa, ancora una volta, sembra
limitarsi a registrare gli eventi, senza enfatizzarli e mantenendo piuttosto la
distanza, mentre anche il montaggio si limita a esporre, disponendo le immagini
secondo un ordine logico, con particolare attenzione alle simmetrie. Anche la
scena “madre”, pur con i suoi picchi di violenza, è insomma riconducibile a
quell’impostazione fenomenologica, comportamentale, qui addirittura
antropologica, di cui si è detto.
Il finale stesso, così intenso e
pure così pudico, non fa che confermare questa lettura: dopo aver lasciato
Riton alle cure di un’infermiera, Max per crearsi un alibi si reca al solito
ristorante, dove ha fissato un appuntamento con una donna, Betty. Quest’ultimo
personaggio, che in effetti compare in due soli momenti e sembra quasi
ricoprire una funzione marginale, necessita senz’altro di qualche puntualizzazione.
Il tema fondamentale del racconto prende le mosse dall’amicizia fra Max e
Riton, motivo tipicamente beckeriano (oltre che, va da sé, tipicamente
hawksiano). Che ruolo hanno allora esattamente le donne in un’impostazione
simile? Il film – inutile girarci intorno – è intriso in questo senso di una
certa misoginia. Josy, amichetta di Riton dedita alla cocaina (dettaglio
scomparso nell’edizione italiana), è in effetti colei che “tradisce” le
confidenze del proprio uomo (come farà poi Anne in Bob le flambeur), ma anche personaggi sostanzialmente positivi come
Bouche e Marinette sono comunque guardati se non con diffidenza almeno con
estraneità (in questo anche conformandosi alle convenzioni del genere, ci
mancherebbe).
Il personaggio di Betty, come si
diceva, ci appare però ancor più ambiguo. Non si capisce, intanto, fino a che
punto sia una delle tante donne di Max o se invece non ricopra un qualche ruolo
di rilievo nel suo piano pensionistico (è l’unica a non avere idea delle sue
attività illecite). Ma quel che è più interessante è che, come il destino
chiede a Max di scegliere fra Riton e il grisbi, così gli chiede anche di scegliere
fra Riton e Betty. I due monologhi interiori, infatti, sono intramezzati
proprio da un incontro erotico con lei: se prima di andarci a letto Max sembra
deciso ad abbandonare l’amico, subito dopo torna sui propri passi. Come se il
tempo trascorso con la donna gli avesse fatto saggiare la gravità del suo tradimento, anzi come se il sesso con Betty fosse già un tradimento vero e
proprio verso Riton. La lettura omosessuale che tanto funziona con le amicizie
virili di Hawks, in altre parole, è già più che prevista in Becker. E il
finale, appunto, non fa che rincarare la dose.
Dopo il primo incontro, mentre
Max già pensava a Riton, Betty gli aveva chiesto “mi vuoi bene, Max?”, e il suo
“eccome” di risposta non era sembrato particolarmente convincente, anche perché
di fatto gli amanti non si trovavano mai nella stessa inquadratura, quasi a
suggerire una sopravvenuta distanza fra i due. Quando nel finale, dopo aver
perso il grisbi, Max scopre di aver perso anche l’amico, morto per le ferite
riportate, la situazione che si ripresenta è sostanzialmente simile (e infatti,
in chiusura, torna anche il tema musicale collegato): di nuovo, l’unione fra
Max e Betty si rivela irrealizzabile, tanto quanto lo sono, appunto, i desideri
di normalità di Max.
Tanto pudore, tanta fede
nell’amicizia, ma anche tanta attenzione per la forma, tanta renoiriana
distensione: impossibile non pensare a Grisbi
come a un “film d’altri tempi”, etichetta vaga e insieme precisa (e che,
prevedibilmente, troverà d’accordo le nostre amiche femministe). Un film di
storia (storie) prima che di intenzioni, perché, in fondo, a Becker non
interessa nemmeno tirare le fila e proporre una qualche morale. Ci sono
solo dei personaggi che hanno delle proprie convinzioni su come vivere la
propria vita, e queste convinzioni vengono messe alla prova da un universo
tanto ricco e complesso da assomigliare al nostro. Allora questi personaggi prendono
delle decisioni, non sappiamo se giuste o sbagliate, e affrontano poi le
conseguenze, spesso imprevedibili, di queste scelte. Tutto molto vero e molto
bello.