sabato 24 novembre 2012

Memorabilia (4)




Più che un'attrice, Mae West è stata un'icona, forse persino un'eroina. Un'attrice comica che, più o meno in solitudine, ha dato vita a una propria personalissima rivoluzione sessuale, imponendo nell'immaginario americano un nuovo modo di pensare e rappresentare l'erotismo. Un'autrice che, senza imbarazzi di sorta, ha praticamente rovesciato tutte le norme di genere, imponendo un inedito sguardo femminile che ridiscuteva di volta in volta le regole del gioco fra i sessi. Ma anche un modello estetico che, partito controcorrente rispetto ai gusti dell'epoca, è riuscito addirittura a imporsi come proverbiale, scavalcando qualsiasi moda e tendenza. Pur concepiti e girati durante gli anni della Depressione, i suoi film non a caso sono quasi sempre ambientati in un'immaginaria belle époque di fine secolo, o al limite nell'ultimo squarcio di quei ruggenti anni Venti che già l'avevano vista trionfare a teatro, rivelata da quello storico spettacolo-scandalo che fu Sex (1926). A differenza delle flapper portate sullo schermo da una Joan Crawford, i suoi sono infatti personaggi che si riallacciano direttamente alla tradizione scollacciata del vaudeville, ma con un'intelligenza e una spregiudicatezza tutte moderne. Il suo gusto per le battute pungenti, capaci di ammaliare e all'occorrenza demolire qualsiasi avversario maschile, ne fanno l'attrice comica più citata di sempre, una sorta di contraltare femminile a Groucho Marx, ma anche il modello confessato o inconfessato per tutto quel cinema e tutta quella televisione che, a distanza di decenni, si sono confrontati con i feticci della sessualità moderna: dalle maggiorate di Frank Tashlin e Russ Meyer alle protagoniste di Sex and the City, dalla Madeline Kahn di Mel Brooks fino alle più sboccate delle stand-up comedian. L'immagine definitiva, quella che meglio riassume una simile verve dissacrante (ma anche autoironica), resta allora quella proposta da Leo McCarey e dal costumista Travis Banton, che nel loro Belle of the Nineties la trasformano addirittura in un autentico monumento erotico, una piccante parodia della Statua della Libertà entrata giustamente nell'immaginario collettivo come “the Statue of Libido”.
Letteralmente adorata da Salvador Dalì e Fellini, ma omaggiata anche da Truman Capote, Tennessee Williams e Gore Vidal, quella di Mae West è insomma una figura che fa parte a pieno titolo della mitologia del XX secolo, non meno delle bottigliette di Coca Cola o delle bandiere con falce e martello. Destino tanto più curioso se pensiamo che, in fondo, si tratta se non di un'antidiva sicuramente di una diva sui generis, di certo non bella secondo i canoni tradizionali, e arrivata peraltro sul grande schermo quando i suoi trent'anni erano ormai un lontano ricordo. Ma proprio da qui, del resto, nasce parte del fascino proto-femminista del personaggio, quello di una donna emancipata che con la propria personalità e la propria intelligenza si è costruita da sé il proprio mito, piegando alle proprie esigenze persino le serratissime regole dello studio-system. Ci saranno state infatti, anche negli stessi anni, attrici più belle, più versatili e in definitiva più “leggendarie”, ma nessun'altra ha avuto la medesima indipendenza e il medesimo potere all'interno dell'industria hollywoodiana. Capace di scrivere o riscrivere da sé i propri copioni, ma anche di imporre le proprie scelte a produttori e registi, Mae West è infatti in un certo senso anche un esempio più o meno unico di autorialismo ante litteram, tanto che alcuni suoi film nei titoli riportano semplicemente la dicitura “by Mae West”.
Persino le attenzioni poco lusinghiere della censura, in un certo senso, non hanno fatto altro che alimentare il fascino quasi morboso intorno alla sua personalità, e questo curiosamente anche quando poi le circostanze rendevano pressoché invisibili i suoi lavori. Anzi, è proprio in quest'ottica che diventa estremamente interessante studiare la fortuna italiana di Mae West, proprio perché di questa attrice-autrice-personaggio, attiva sul palcoscenico, al cinema, alla radio e sulla carta stampata, in Italia è sempre arrivata soltanto una timida eco, e anche le sue battute più pungenti, messe “fra virgolette”, hanno spesso assunto un carattere tutto sommato innocuo. Analizzando quotidiani e settimanali degli anni Trenta e Quaranta, da un lato ci si rende conto infatti dell'enorme popolarità che Mae West doveva aver raggiunto anche nel nostro paese, ma al tempo stesso si capisce anche come per il pubblico italiano l'attrice fosse rimasta in buona sostanza una semplice figurina di carta, un volto che era più facile incontrare su una rivista che non sul grande schermo. L'unico suo film ad aver trovato una regolare distribuzione cinematografica, nel 1934, era stato She Done Him Wrong (ribattezzato Lady Lou), mentre gli altri nove titoli interpretati fra il 1932 e il 1943 non avrebbero mai passato il vaglio della censura o del mercato, nemmeno quando avevano avuto alle spalle un forte investimento pubblicitario, come per il caso di I'm No Angel o Belle of the Nineties (quest'ultimo, col titolo La donna fatale, sarebbe poi apparso se non altro sotto forma di romanzo a puntate su “Cinema Illustrazione”, nn. 11-14, 13 marzo-3 aprile 1935). Eppure, non c'è dubbio, il pubblico stravedeva per lei, tanto che ad esempio la rivista “Cinema” (n. 27, 10 agosto 1937), per placare l'insistente curiosità dei suoi lettori, arrivò a un certo punto a pubblicare persino un articolo con le 12 domande più frequenti rivolte alla diva, tutte accompagnate naturalmente dalle consuete, sagacissime risposte.
Una forma di strabismo mediatico forse nemmeno troppo inconsueta (quante “attrici” sono diventate popolari quasi senza far film, puntando tutto sull'apparato promozionale?), ma che in questo caso specifico assunse davvero connotati paradossali: i paratesti (le copertine, le interviste, le novellizzazioni) presero in pratica il posto dei testi veri e propri (i film), e il mito dell'attrice si nutrì quasi esclusivamente di questi surrogati. È un fenomeno che, così su due piedi, non è facile spiegare, se non forse come una sorta di “provincialismo di massa”, per cui un idolo del pubblico americano veniva automaticamente recepito e acclamato anche dal nostro pubblico, poco importa se in maniera del tutto indiretta. O forse la macchina promozionale delle major aveva davvero messo in piedi un meccanismo talmente perfetto per cui, al limite, era ormai tranquillamente possibile vendere anche una diva che non c'era. Fatto sta che, spulciando le vecchie pubblicazioni dell'epoca, c'è davvero da restare a bocca aperta per la perizia con cui, settimana dopo settimana, Mae West si infiltrò di soppiatto nei sogni proibiti di mezza Italia. Le prime avvisaglie si ebbero già fin dai primi mesi del 1933, quando il clamore sollevato dal suo primo film da protagonista, She Done Him Wrong, varcò l'oceano e le fece guadagnare copertine e trafiletti vari. Una strategia pubblicitaria in cui rientra anche un articolo di colore apparso il 15 marzo sul popolarissimo settimanale “Cinema Illustrazione” e firmato da Louis Sassoon, pseudonimo riconducibile nientemeno che a Cesare Zavattini, che in quegli anni in effetti sbarcava il lunario inventando di sana pianta delle fantomatiche corrispondenze da Hollywood:

Il più grande successo del giorno a Hollywood è un film: She done him Wrong (Essa gli fece torto), con un'attrice bravissima, ma completamente sconosciuta agli spettatori italiani, e pochissimo nota anche nel resto di Europa. Ma questa volta credo che Mae West passerà, almeno come immagine, l'Atlantico.
Perché Mae West... Ma procediamo con ordine: il successo di questo film al “Paramount Theater” di Los Angeles, può forse segnare l'inizio di una nuova era: ecco perché ho creduto bene di segnalarlo. Il film si svolge al principio del nostro secolo, quando la moda era tutta ottocentesca e le dame portavano delle toelette che ci sono sembrate comiche fino a quando l'ultima moda non le ha fatte di nuovo sembrare belle. [...] Mae West interpreta mirabilmente il suo personaggio sia dal lato fisico che spirituale: non recita, vive. E fisicamente ha saputo essere con grazia, con gioia, oserei dire, una giovane donna di trentatré anni or sono. Voglio dire, in altre parole, che non ha affatto vergogna di sembrare ben tornita anziché giovarsi di essere ben... piallata. [...] Si sa che Mae West mangia ciò che vuole, perché ha un magnifico appetito, non ha paura di ingrassare ed ha una robustezza fisica che le consente ogni sport, ogni fatica di studio e di mondanità. E ad Hollywood si è già creata una frase che dice tutto: “Avere un fisico alla West!”.
[...] Cinque, quattro, anche tre anni or sono, pensare che ad Hollywood la moda del tipo femminile ridotto pelle e ossa sarebbe cambiata in favore di un genere un poco più... maneggevole, era una speranza assurda. Tutte le case cinematografiche possedevano uno stock di attrici perfettamente denutrite e non avrebbero permesso che la loro merce fosse così facilmente svalutata. [...] Chi ha visto Grand Hotel avrà notato che la Garbo, poverina, è ridotta ad una canna di bambù, che la Crawford ha perduto i suoi bellissimi lombi ed ha due fosse scavate sotto gli zigomi. Chi vede le altre si accorge che, disgraziate, hanno fame e che, ad abbracciarle, l'attore che deve fingere di amarle, sente certamente scricchiolare la loro cassa toracica.
Benvenuto dunque il “tipo West”! A guardarlo bene ci si accorge che l'arcimodello, il tipo sempiterno, è l'immagine di colei che nacque dalla schiuma del mare e che gli antichi ci hanno tramandato in statue di divina bellezza. Ma forse per gli scemi, e sono purtroppo la maggioranza, anche Venere Anadiomene sarà poco... fotogenica.
Lo stesso discorso incentrato su questo nuovo modello di femminilità, subito ribattezzato “donna anticrisi”, sarà ripreso più o meno invariato anche da Marco Ramperti, che sul numero di “Cinema Illustrazione” del 3 gennaio 1934 presenta al pubblico She Done Him Wrong, ormai di imminente uscita anche in Italia, ma in pratica lo fa senza parlare affatto del film, proponendo piuttosto una sorta di “biografia immaginaria” della West, incontrata (?) in California quindici mesi prima, quando non era che un'aspirante attrice come tante altre:

Il “Brown Derby”, intanto, andava affollandosi della sua illustre clientela del mercoledì [...] Ad uno dei tavoli, servita con più abbondanza ma con meno ossequio, stava una florida dama sui venticinque [sic], che per la sua mole matronale non era certo da considerarsi un'attrice: bensì una benestante forestiera, di passaggio a Hollywood; o forse una scrittrice di soggetti […]. E a costei io non avrei badato, fra le tante illustrazioni che ci attorniavano, s'ella non si fosse distinta, unica eccellenza sua, con l'appetito: poi che, avendo ordinato, in luogo del puro tè all'arancio o all'ananasso cui si attenevano le stars in lor regime strettissimo, una fila di fumanti e sudanti hot-dog's, se li andava ora distruggendo, uno dopo l'altro, con una placida e ferma divorazione che pareva quasi, per tutte le altre, un insulto e una sfida. [...] Ma l'atticciata e tranquilla dama non se ne dava per inteso; e come il resto della clientela non faceva che delibare, assaggiare, smozzicare, sgranocchiare in punta di labbra e d'incisivi, ella invece, a quattro palmenti e senza un'ombra di riguardo, faceva questa cosa naturale e straordinaria, necessaria e scandalosa: mangiava. E naturalmente io non osai, benché incuriosito, domandarne il nome [...]. La riconobbi, venuto in Italia, da una vignetta di “Cinema Illustrazione”: l'ignota trangugiatrice era l'ormai celebre Mae West, la quale aveva avuto tempo, in venti giorni soltanto, di uscire dall'ombra d'un ristorante per entrare nella luce della gloria.
L'attenzione per questa attrice-personaggio, non ancora ammirata sullo schermo ma evidentemente già idolatrata dal pubblico, raggiunge però il suo culmine in un trafiletto intitolato addirittura Allarme (“Cinema Illustrazione”, 27 dicembre 1933), in cui le solite voci maligne create ad hoc arrivano d'un tratto a ipotizzarne un preoccupante dimagrimento:


Una notizia sensazionale ha circolato giorni or sono a Hollywood: Mae West dimagrava. Un vero avvenimento. E nei locali pubblici e negli studi si arrivava a precisare quanti grammi di carne avevano abbandonato il bel corpo della prosperosa attrice. In altri tempi una stella avrebbe sacrificato migliaia di dollari per accreditare sempre più una voce di quel genere; ma adesso Mae West è andata sulle furie: “Calunnie delle colleghe!” ha esclamato. E ha convocato subito un bel gruppo di giornalisti per informarli che il suo bendiddio era sempre a posto: e per poco non si è esposta a una perizia. Poi è andata a chiedere consolazione a Mary Pickford che è diventata la sua migliore amica. Tanto amica che Mary ha scritto una scena per il nuovo film di Mae: No, non è peccato. [...] Dal momento, poi, che ci troviamo fra le mani – che grandi mani! – Mae West, cogliamo l'ultimo pettegolezzo che è stato creato intorno alla nota avversione esistente fra lei e Marlene Dietrich. “Ah, sì? La signora Dietrich ha detto che ella ignorava le mie toelette? Ma se ho sempre sentito dire che porta il mio busto per mostrare curve alla Mae West!”
Si tratta di una strategia pubblicitaria che oggi può far senz'altro sorridere, ma che all'epoca rientrava in una precisa politica editoriale voluta dalle major: al divismo un po' troppo “divino”, caratteristico ancora di certe femme fatale del muto, si andava infatti sostituendo una dimensione molto più terrena, per cui anche attrici irraggiungibili come Marlene Dietrich o Greta Garbo erano spesso mostrate nella loro quotidianità, sottolineandone anzi tutti quegli aspetti mondani che le lettrici potevano facilmente imitare nella vita di tutti i giorni. Particolare attenzione, quindi, veniva immancabilmente rivolta alle visite dalla modista, alle sedute dal parrucchiere, ma anche all'igiene personale, allo sport e, appunto, alle diete più o meno ortodosse seguite dalle dive. Un processo promozionale e pedagogico insieme, che Raffaele De Berti ha giustamente definito come “ricontestualizzazione del mondo di Hollywood nella cultura italiana”, e che ha avuto il proprio strumento principe proprio nella stampa popolare, che in quegli anni attraverso la formula del rotocalco iniziava a raggiungere un pubblico sempre più vasto. I film veri e propri, in tutto questo, costituivano quindi soltanto una delle molteplici modalità con cui gli spettatori si rapportavano ai loro beniamini del grande schermo, tanto che la popolarità di un attore poteva in certa misura prescindere dai suoi successi artistici. La stessa Mae West, come abbiamo visto, diventa così un'autentica diva prima ancora di comparire sul grande schermo, e non a caso la stessa recensione (positiva) di Lady Lou occuperà su “Cinema Illustrazione” uno spazio più o meno irrilevante, ridotta in pratica a poche righe in terza di copertina (21 febbraio 1934). Niente a che vedere con il paginone riservatole due settimane più tardi, in cui “intervistata” da tale “Co. di S. Siro” la vamp si muta in consulente sentimentale e ci confida i suoi segreti Per vincere in amore (7 marzo 1934):


Come dominatrice di uomini, Mae è realmente un'esperta, una tecnica di indiscutibile competenza, che all'abilità dell'esercizio pratico accoppia anche una non trascurabile preparazione teorica. È perciò che abbiamo voluto chiedere alla diva di concederci qualche briciolina della sua scienza della seduzione, e Mae s'è degnata di esporci un prezioso decalogo ad uso delle ragazze da marito, garantendocelo come l'unico di sicuro effetto.
Il primo consiglio che la formosa diva rivolge alle ragazze è questo: “Renditi desiderabile valorizzando il sex appeal”. A scanso di equivoci, ella spiega subito però che con questo non intende dire che le ragazze desiderose di essere amate debbano assumere atteggiamenti sfrontati e debbano trascendere a esibizioni o atti men che morali. No! Il sex appeal – precisa la diva – è fatto di civetterie sottili ma sempre garbate, di piccole scaltrezze femminili che devono sempre evitare la volgarità. Una fanciulla – continua Mae – pur non abdicando alla sua dignità di donna, può eccitare i sensi ben più di una femmina aperta e rotta a ogni arte della seduzione.
Il secondo consiglio è questo: “Conserva la tua femminilità sia nell'apparenza che nei sentimenti”. Ed è, come ognuno capisce, una raccomandazione più che saggia. Mae West, per esempio, condanna l'uso dei calzoni – nella donne ben inteso – con una forza e un ardore da crociato. “Adoro i calzoni – ha affermato – ma solo quando sono infilati nelle gambe degli uomini. Una donna che si compiace di farsi vedere in giro in indumenti maschili, o che fa esibizioni sulle spiagge sfoggiando pigiami da uomo, è per me altrettanto ripugnante di un uomo che indossasse le sottane o scoprisse la caviglia nel camminare”. Brava Mae! [...]
Terzo consiglio: “Non cingerti di una corona di virtù troppo rigida, quando un uomo che ti interessa desidera conquistarti”. [...] “Una ragazza – ha detto Mae – che resiste troppo, che arrossisce a ogni richiesta di un bacio, che trasalisce se il fidanzato le sfiora una mano, finisce per stancare il probabile futuro marito e molto spesso si vede giocata da un'amica più intraprendente e meno disposta ad arrossire”.
Consiglio numero quattro: “Studia le particolari attitudini del tuo uomo e lavora su quelle”. Qui Mae presuppone evidentemente che tutte le ragazze dispongano della sua intelligenza e del suo intuito. [...]
Andiamo dunque avanti col quinto suggerimento: “Lascia intendere al tuo ammiratore che egli ha dei concorrenti, ma non insistere troppo”. [...] Altro autentico capolavoro di sottigliezza psicologica! “Però – ha aggiunto subito Mae, che la sa lunga – non bisogna esagerare. Esagerando, parlando sempre degli altri adoratori veri o immaginari, c'è il pericolo che l'uomo si annoi e decida filosoficamente di consegnare il suo cuore a qualche ragazza che sia meno occupata!”
Sesto consiglio: “Non ti concedere facilmente: l'orgoglio dell'uomo non può essere soddisfatto che dalla conquista con la lotta”. [...] “Se – ha aggiunto Mae pittorescamente – i leoni si potessero tenere al guinzaglio come i cani, nessuno più andrebbe fiero di possedere una pelle di leone, e i leoni verrebbero probabilmente presi a calci nel posteriore, come oggi i cani”. Capito?...
La settima raccomandazione suona precisamente così: “Stimola l'immaginazione dell'uomo”. [...] Ci perdoni la bella Mae con tutti i suoi meriti [ma] è una raccomandazione superflua. Superflua sì, poiché è pacifico che le bugie le sanno raccontare anche le fanciulle più stupide e meno intraprendenti, senza bisogno che nessuno si scomodi a raccomandarne l'utilità!
Consiglio N. otto: “Ricorda che il cervello potrà servirti più della bellezza”. Qui ci siamo: consiglio veramente saggio e intelligente. […] “Vi sono molte ragazze – ha commentato Mae – che credono di impressionare l'uomo bistrandosi la faccia, e posando a “fatali”, complice una certa naturale avvenenza. Si disingannino. È ben vero che l'uomo non cerca più l'ochetta sclerotica che sappia suonare La preghiera della vergine e fare il ricamo su un paio di pantofole; ma è altrettanto vero che le “statue di carne” sono dall'uomo desiderate, non amate, e neppure tenute in considerazione per un eventuale matrimonio”. Avventure, in altre parole, non intenzioni serie! [...]
Nono consiglio: “Sii sempre differente”. Una parola!... [...]
Decimo e ultimo: “Studia la vita e il contegno delle famose donne fatali della storia”. Veramente la parola usata da Mae è charmers, voce mezzo francese e mezzo inglese che si dovrebbe tradurre in italiano con una parola più cruda. Usiamo l'eufemismo: ché il vero significato si può egualmente capire. Dunque, leggere la storia delle donne fatali famose, e – questo Mae non l'ha detto ma l'ha lasciato sott'intendere – imitare le medesime. Ahi, ahi, qui il consiglio ci sembra veramente pericoloso ed eccessivo. Lo riferiamo soltanto per non defraudare i lettori di questa decima norma del decalogo. Non diciamo che per conquistare gli uomini la lettura della Vita dei Santi Padri sia la più indicata, ma perché trascendere addirittura alle storie delle “donne fatali” storiche?... Mae West, come vedete, è una donna ricca di esperienza oltre che di sex appeal.
Il testo, probabilmente tradotto e adattato da uno dei tanti articoli che uscivano all'epoca su riviste americane come “Photoplay” e “Movie Classic”, diventa a suo modo un autentico capolavoro di cerchiobottismo acrobatico proprio per lo sforzo (persino esibito!) di ricontestualizzare il personaggio di Mae West in un ambito culturale molto meno progressista, in cui le sue allusioni sessuali non possono che finire immancabilmente “virgolettate”. Il personaggio dell'attrice, eccessivo per vocazione, viene in pratica addomesticato attraverso le continue intromissioni del cronista, che diventa in questo senso il garante di quel comune senso del pudore a cui, a fine articolo, è comunque necessario ricondurre la fantasie eccitate di lettori e lettrici. Qualcosa di simile accadrà anche un po' in tutte le altre interviste che, con una certa puntualità, continueranno ad apparire almeno fino al 1937, spesso sotto titoli più o meno improbabili come Mae West sotto chiave (“Cinema Illustrazione”, 22 maggio 1935), Pretendono d'avermi sposata (30 ottobre 1935), Mae West parla dei gentiluomini (9 settembre 1936), La vera Mae West in 13 risposte (10 marzo 1937) o, addirittura, Che cosa dice la cameriera di Mae West (13 febbraio 1935). Nel 1938 la legge Alfieri, nel tentativo di ridurre la presenza del cinema americano nelle nostre sale, obbligherà però anche i settimanali ad abbandonare i divi d'oltreoceano per concentrarsi piuttosto su un pugno di attori nostrani. Mae West, che come abbiamo visto doveva la propria familiarità col pubblico soprattutto alla carta stampata, ne sarà forse penalizzata più di altri, tanto che per esempio nessuno dei suoi film verrà recuperato nemmeno nell'immediato dopoguerra, quando pure sugli schermi appariranno molti dei film bloccati a suo tempo dalla censura fascista. Già dal 1937, peraltro, il regime aveva cominciato a orientare una campagna di denigrazione a mezzo stampa che puntava a ridimensionare la popolarità degli interpreti hollywoodiani, di cui venivano innanzitutto messi in piazza i guadagni oltremodo “gonfiati”. Anche Mae West cadde naturalmente vittima di questa nuova politica editoriale, tanto più che il suo personaggio era senz'altro uno di quelli più facilmente attaccabili. Molto curioso, per esempio, è l'articolo di Stanley Walker intitolato Mae West scandalo d'America, tradotto per il numero 38 di “Cinema” (25 gennaio 1938), che di per sé non avrebbe nulla di particolarmente diffamatorio, ma a cui fu aggiunta una velenosissima noticina introduttiva:

Gli attori hollywoodiani hanno provocato un'idolatria del pubblico europeo per certi atteggiamenti tipicamente americani. Mae West, figlia di un'attrice francese, potrebbe essere considerata una specie di vendetta per quella invasione di idoli stranieri. Perché Mae West rappresenta un temperamento tipicamente europeo, ormai superato da noi, ma che suscita nel pubblico americano certe sensazioni del nostro “fin de siècle”. Infatti, la donna di Baudelaire e di Felicien Rops doveva sembrare qualche cosa di assai strano e attraente agli americani, per cui la donna non è rimasta altro che un animaletto, pretensioso magari, ma innocuo, ed estremamente semplice.
Riflessioni piuttosto sorprendenti, specie se si pensa che fino a pochi mesi prima, proprio sulle pagine di “Cinema” (n. 27, 10 agosto 1937), si tessevano ancora le lodi dell'indimenticabile Lady Lou, arrivando a concludere che “l'intelligenza e la vitalità dell'attrice fanno presa su chiunque”. E comunque l'improvviso voltafaccia non rende nemmeno conto del tentativo, per la verità piuttosto sfortunato, di sfornare proprio in quegli anni una “Mae West italiana”, cioè un'attrice autarchica che non facesse rimpianger troppo la scomparsa dell'inimitabile “donna anticrisi”. L'aspirante sostituta, la romagnola Gemma Bolognesi, ebbe però dal cinema soddisfazioni assai modeste, e nonostante la decennale carriera teatrale non riuscì mai a imporsi davvero sul grande schermo. Il suo ruolo più memorabile, a conti fatti, resta quello “circense” in Darò un milione (1935) di Mario Camerini, nato guarda caso proprio da un soggetto di Cesare Zavattini/Louis Sassoon.

Gemma Bolognesi e Vittorio De Sica in Darò un milione (1935)

Quel che più colpisce, come dicevamo, è però il destino infelice che attende il mito di Mae West anche dopo la caduta del fascismo. Mentre sul finire degli anni Quaranta, per esempio, i fratelli Marx conoscono in Italia una breve stagione di rinnovata popolarità, nessuno dei titoli dell'attrice viene recuperato, nemmeno il pur recente The Heat's On (1943). Continuano nonostante tutto a uscire un pugno di articoli -più o meno morbosi- sul declino e i nuovi progetti dell'attrice, ma anche stavolta il pubblico non ha modo di giudicare con i propri occhi. Per assurdo, l'unico vero successo sembra arridere ancora una volta alla Mae West di carta, visto che a partire dal 1952 l'editore Del Duca raccoglie in volume le novellizzazioni dei suoi testi teatrali più famosi (Diamond Lil, The Constant Sinner) e infine nel 1961, a 27 anni di distanza da Lady Lou, Borghese pubblica la sua autobiografia, L'amante degli anni trenta, a cui anche la stampa periodica dedica ampio risalto. Ma già il titolo italiano di quest'ultimo volume, che sostituisce l'originale Goodness Had Nothing to Do With It, non fa altro che collocare la sua protagonista in un orizzonte temporale ormai tanto leggendario quanto remoto. L'ultimo atto, paradossale come i precedenti, di un mito tutto artificiale: l'autocanonizzazione di una diva invisibile.
In fin dei conti, si diceva un tempo, quello di Mae West era un fenomeno tipicamente americano, che riguardava poco noi europei; finché, tutto d'un tratto, non si è riconosciuto invece che la sua era stata un'opera anticipatrice, d'accordo, ma che ormai scontava uno spirito fin troppo naif, non più al passo con i tempi, recuperabile semmai soltanto nella sfera del cosiddetto camp. Insomma, la vera Mae West in Italia non è mai arrivata. La sua arte ha fatto capolino solo in qualche timida retrospettiva degli anni Settanta e Ottanta, quando in effetti i suoi lavori somigliavano ormai più che altro a polverosi oggetti di studio, ammantati casomai di una certa nostalgia per le buone cose di cattivo gusto dei bei tempi andati. Per questo, forse, la definizione più calzante resta ancora oggi quella che ne ha dato Massimo Mida in una sua rubrica su “Cinema” (n. 21, 30 agosto 1949): un personaggio del tempo perduto.

Erede ultima delle eroine del “can can” parigino (ventagli, piume, calze nere sono elementi a lei familiari e fanno fede sull'origine del suo gusto tipico da palcoscenico di music hall), Mae West ha saputo aggiungere a quel modello famoso uno spirito ancor più brillante e una misura di penetratività tipicamente yankee, valendosi d'altra parte di un sex-appeal conturbante e pubblicitario. Del resto, la violenza del suo incedere sul palcoscenico (suo elemento naturale) o sullo schermo (elemento al quale seppe adattarsi con notevole maestria) Mae West sembra portarla nel suo stesso cognome. Non vuole esso infatti riproporci le immagini di un West, popolato da sceriffi e da banditi mascherati e da lei stessa, Mae West, maliarda fine secolo, sbarcata forse dalla vecchia Chicago dietro il bancone di uno spaccio a distribuire gotti di birra e provocanti sorrisi?
Nata a Brooklyn (New York, U.S.A.) il 17 agosto 1893, prese parte a circa dieci film, ma il suo mestiere vero era il varietà, che ella aveva praticato dall'età di cinque anni. I suoi film, come è noto, furono respinti e mutilati dalle censure di tutto il mondo, compresa quella italiana, la quale le applicò il veto in non pochi film da lei interpretati, mentre lavorò abbondantemente di forbici in She Done Him Wrong (Lady Lou, 1933) e in I'm No Angel (1933). Così è nato il mito di una Mae West creatura micidiale per i collegiali, creatura pericolosa, come un fucile spianato, per la morale pubblica. [...] Walt Disney ci ha consegnato un famoso e ironico ritratto di Mae West in Chi ha ucciso Cock Robin? [1935], dove la “diva” è rappresentata come una passera grassa e avvenente, con tutto il corredo di movenze, di mute implorazioni degli occhi e di promesse di “non più peccare” rivolte ai severi e puritani giudici. Da quel momento, e il merito va tutto alla “diva”, il personaggio di Mae West fu consegnato alla storia del costume americano.
La mia Mae
(Dafne Imbimbo, 2012)

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