lunedì 20 agosto 2012

Il figlio di Dracula (1943)




Soltanto il cinema comico può forse contendere a quello horror la palma della serialità più spinta e sfacciata. Fin dagli albori del sonoro, con due apripista d'eccezione come Dracula e Frankenstein (1931), il genere ha infatti sviluppato una singolare predilezione per saghe e cicli, che ne hanno segnato il percorso sia a Hollywood che in Europa e in Asia. E non è nemmeno un caso, del resto, che a metà anni Settanta sia stata proprio la promozione dell'horror a genere di serie A ad aprire le porte alla moda del cosiddetto franchise (i vari Lo squalo, L'esorcista, Il presagio...). Tendenza di cui si può essere più o meno entusiasti, ma che senza dubbio resta uno dei capisaldi su cui anche attualmente si basa il processo di fidelizzazione dello spettatore medio, richiamato ormai in sala quasi soltanto da ciò che conosce e apprezza già. Ma se scantoniamo dall'approccio massmediologico e restiamo invece fedeli alla nostra prospettiva autorialista, come possiamo allora rapportarci al fenomeno della serialità senza perder di vista quel che più ci interessa, cioè l'unicità e l'irripetibilità di ogni opera d'arte? Una buona palestra, in questo senso, può essere un film spesso trascurato ma tutt'altro che indegno, Il figlio di Dracula, girato nei primissimi mesi del 1943 da un Robert Siodmak non ancora consacrato da successi come La scala a chiocciola (1945) e I gangsters (1946).
Si tratta, tanto per cominciare, di un episodio (il terzo) della popolare serie iniziata da Tod Browning per la Universal nel 1931. La storia, pur rispettando un po' tutte le premesse del genere, non si ricollega però in alcun modo al secondo episodio (Dracula's Daughter, 1936, firmato da Lambert Hillyer), mentre del primo mantiene forse soprattutto lo spirito, ma richiamandosi come vedremo molto più al romanzo che non al suo adattamento cinematografico. C'è quindi da impostare subito l'inevitabile discorso sul rapporto fra film, serie e autore: chi è il principale responsabile dell'opera, la Universal che ha prodotto e sviluppato la serie o Siodmak che ha diretto il singolo episodio? La risposta, come vedremo, è piuttosto articolata, tanto più che è della partita un terzo contendente, un altro Siodmak, il fratello Curt, sceneggiatore specializzato proprio in cinema fantastico e autore in questo caso del soggetto originale da cui prende le mosse il film. Lo stesso Curt, in verità, nella sua autobiografia (Wolf Man's Maker. Memoir of a Hollywood Writer, Scarecrow, 2001) sembra un po' voler minimizzare il proprio contributo artistico: illustrando il carattere quantomeno difficile del fratello, spiega infatti che fu lui a fargli assegnare la regia del film, imponendolo alla Universal, ma che Robert per tutta risposta non tardò a farlo estromettere dal progetto, chiedendo che la riscrittura definitiva del copione venisse affidata a un altro sceneggiatore. Nondimeno, come vedremo, la filmografia di Curt si rivelerà in più di un'occasione un'utile pietra di paragone proprio per cogliere specificità e originalità di questo Il figlio di Dracula.

Partiamo isolando in poche righe il soggetto: di ritorno da un viaggio a Budapest, la giovane Katherine invita nella sua piantagione in Louisiana un fantomatico conte Alucard. La festa di benvenuto all'ospite si trasforma però in tragedia, perché il padre di Katherine viene inspiegabilmente trovato morto giusto prima dell'apparizione di Alucard. La malefica influenza del Conte sembra del resto confermata dagli eventi successivi, perché dopo aver ereditato la piantagione Katherine abbandona il suo fidanzato, Frank, e si ritira invece a vivere in solitudine. Insospettito, Frank inizia a sorvegliare la ragazza, ma non riesce a impedire le sue nozze con Alucard: arrivato alla villa subito dopo la cerimonia, cerca allora di convincerli ad annullare il matrimonio, ma il Conte lo aggredisce e, estratta la pistola, Frank uccide involontariamente Katherine. Subito dopo corre a rifugiarsi dal dottor Brewster, il medico locale, che ha intanto iniziato a indagare sulle origini vampiresche di Alucard, concludendo che debba trattarsi di un discendente della dinastia Dracula. Il medico, cercando di verificare il racconto di Frank, corre alla villa e trova Katherine apparentemente viva, ma il giorno dopo, quando anche la polizia ispeziona la piantagione, il corpo della donna giace sepolto in una bara. Accusato d'omicidio, Frank riceve in cella la visita della rediviva Katherine: non ha mai smesso di amarlo e non si è lasciata sedurre da Alucard, ma al contrario (!) è stata lei ad adescarlo per lasciarsi vampirizzare e ottenere l'immortalità. Adesso, però, i due innamorati devono far fuori il Conte, in modo da potersi ricongiungere e godere insieme della vita eterna. Mentre Brewster, aiutato dall'esperto vampirologo Lazlo, è ormai a un passo dalla verità, Katherina fa allora evadere Frank, che riesce a distruggere Alucard bruciando la sua bara, ma all'ultimo momento, come estremo gesto d'amore, decide di porre fine anche all'esistenza di Katherine, liberandola dalla maledizione del vampirismo.
Com'è facile notare, il soggetto si ispira in più di un'occasione a soluzioni e suggestioni presenti nel romanzo di Stoker e già fatte proprie dal film inaugurale di Browning. Intanto il viaggio del Conte, che dalla tetra Transilvania si sposta in America, giovane terra di conquista, è anche qui agevolato da un adepto (Katherine), anche se come vedremo le motivazioni di quest'ultimo sono in questo caso molto più ambigue. Lo stesso personaggio di Lazlo, col suo inglese un po' accidentato, non è d'altra parte che una variazione su quello di van Helsing, così come certi episodi di passaggio (il bambino vampirizzato, l'apparizione nello studio) si riallacciano direttamente al romanzo. C'è persino – un po' civettuola – una citazione esplicita: documentandosi sulla dinastia del Conte, Brewster consulta un vecchio volume che, inquadrato in dettaglio, si rivela appunto essere il libro di Stoker.
Tutti questi aspetti, mentre si inscrivono chiaramente in una tradizione seriale, esplicitano anche un gusto abbastanza moderno per un gioco chiamiamolo “intertestuale”, quasi combinatorio, a tratti non privo di ironia. È evidente, per esempio, che lo spettatore ne sa immediatamente più dei personaggi, che impiegano un quarto d'ora buono soltanto per realizzare che Alucard è l'anagramma di Dracula. La stessa ambientazione americana, non priva di un suo folklore molto pragmatico, permette del resto una certa ironia, come quando alla stazione i protagonisti aspettano il Conte e il capotreno abbastanza prosaicamente li avvisa: “there's no Count on this train, just old customers” (non ci sono conti sul treno, solo i soliti passeggeri). Quest'America, si direbbe da subito, non sembra proprio terra da aristocratici... E l'ironia intertestuale fa di nuovo capolino nella sequenza nuziale, in cui invertendo un'immagine tipica dell'horror classico Alucard porta fra le braccia non la vittima rapita ma la sposa legittima e consenziente.
Difficile stabilire quanto questi ammiccamenti siano già riconducibili a una precisa volontà autoriale, ma è comunque chiaro che il film si permette di giocare con la propria natura seriale, strizzando l'occhio alle aspettative del pubblico. Se vogliamo invece cogliere le specificità dell'episodio, dobbiamo fare un passo avanti, andando a esaminare meglio le strategie narrative e stilistiche. Intanto, anche per distinguere l'apporto di un Siodmak dall'altro, è bene evidenziare il ruolo di un personaggio apparentemente minore, Madame Zimba: si tratta infatti di una variazione sullo stesso personaggio di zingara interpretato da Maria Ouspenskaya nel dittico L'uomo lupo/Frankenstein contro l'uomo lupo (1941-43), forse il successo più clamoroso di Curt Siodmak. Parliamo di una figura importante perché, quasi senza rendersene bene conto, l'autore la utilizza con una funzione non dissimile da quella dell'oracolo nella tragedia classica: per bocca sua, protagonista e spettatore prendono coscienza di un oscuro ma inarrestabile disegno del Fato, cui nessuno riuscirà a sottrarsi, né il Larry Talbot de L'uomo lupo e né la Katherine Caldwell de Il figlio di Dracula. Questo impianto narrativo “tragico”, che è forse il contributo più importante di Curt Siodmak al genere, diventa però qui ancor più notevole perché si sposa alla perfezione con quel discorso sul Destino che permea anche tutta l'opera noir del fratello Robert. I protagonisti di questo insolito triangolo d'amore (Alucard, Katherine, Frank) agiscono infatti secondo uno schema che ricorda molto da vicino quello del noir più classico, stile La fiamma del peccato: la donna seduce il più potente dei due uomini (ormai vecchio e sterile), cercando poi di manovrare l'altro amante (giovane e desiderabile) per sbarazzarsene e poter così godere in libertà della fortuna acquisita attraverso il matrimonio (in questo caso, addirittura, la vita eterna).
Rispetto a questa lettura, proposta da più parti e illuminante nella misura in cui evidenzia la commistione dei generi (horror, tragedia, noir), è importante però fare delle precisazioni. Intanto Katherine, indubbiamente, non è del tutto riconducibile allo stereotipo della femme fatale, in quanto da subito il primo attributo di questa presenza fantasmatica è la debolezza, l'incapacità di adattarsi alla vita. I suoi frequenti primi piani, isolandola dagli altri personaggi, ce la mostrano piuttosto proiettata telepaticamente verso la morte. Quando, nell'ultimo atto, la donna ci rivela infine il suo piano perverso ai danni di Alucard, non possiamo allora che domandarci: vittima o carnefice? Come ci spiega il dottor Brewster, infatti, a spingere la protagonista verso il delitto è stata soprattutto una nevrosi, la tanatofobia, l'ossessione morbosa per la morte. Una sensibilità malata che eredita e combina insieme alcuni tratti latenti nei due personaggi stokeriani di Mina e Lucy (rispettivamente, angelo e demonio), ma anche un ritratto che non stona affatto accanto alla galleria di donne ipersensibili tanto care in quegli anni a Val Lewton (Il bacio della pantera, Il giardino delle streghe).
Ma se Katherine, dopo aver innescato il proprio piano, si trova inconsapevolmente travolta dagli eventi, l'evoluzione che più spiazza e sorprende è quella di Alucard/Dracula. La caratterizzazione proposta da Lon Chaney jr. (che, come nel romanzo, porta i baffi) non è certo memorabile, anche per una fisicità poco azzeccata, ma il suo è un raro tentativo di conferire un risvolto patetico alla figura del vampiro, un po' sulla falsariga di quanto già fatto con il licantropo per L'uomo lupo. Per quanto minaccioso e quasi onnipresente, il suo Dracula all'occorrenza non si vergogna infatti di esibire un fondo di vulnerabilità anche piuttosto calcato: si veda la scena in cui Frank brucia la sua bara, quando il gelido contegno del non-morto lascia d'un tratto spazio al panico e alla disperazione più totale. Ma anche le parentesi romantiche, pur abbastanza comuni nella serie, sono qui gestite con una certa sensibilità e un certo coinvolgimento emotivo, come testimoniano del resto la musica e i primissimi piani riservati alla notte di nozze.
Frank, infine, assolve alla duplice funzione di ingenuo tanto cara sia all'horror che al noir. Dapprima non coglie la natura soprannaturale del Conte, sperando di affrontarlo a quattr'occhi, e più tardi finisce al centro degli intrighi di Katherine, incatenandosi in nome dell'amore al suo stesso destino. Nonostante questo, il suo personaggio di diligente giovanotto americano è l'unico che, sul chiudersi della tragedia, conosca una vera elevazione spirituale: Alucard e Katherine, nel loro blasfemo connubio di amore e morte, finiscono puniti e annientati per aver sfidato le leggi della Natura, mentre Frank è l'unico che attraverso la rassegnazione riesce a sopravvivere, rinunciando all'amore terreno ma non alla propria dignità di essere umano. Il fuoco con cui brucia il corpo di Katherine e la stanza dei loro giochi d'infanzia diviene così un rogo purificatore, anche se come spesso accade nella tragedia l'unico finale positivo corrisponde appunto con la rinuncia alle proprie cieche passioni.

Se analizzando il tessuto narrativo qualche dubbio può ancora legittimamente persistere sul contributo decisivo del regista in quanto autore (o co-autore), uno sguardo più attento alla messa in scena dovrebbe chiarire quelli che, al di là di tutto, restano poi i meriti maggiori del film: un'atmosfera allucinata, da incubo, resa con una grande fluidità d'azione e con un uso molto significativo della composizione del quadro. Qualità che ben si accordano con i temi del film, tanto da divenirne in ultima analisi la sostanza stessa. Il motivo della passione che spinge sempre più i personaggi verso un destino oscuro si concretizza per esempio in un'immagine ricorrente, quasi un vero e proprio refrain, che ricorre ben sei volte: accompagnato da un carrello laterale, un personaggio si avventura freneticamente nella palude, con la macchina da presa che solo progressivamente scopre insieme a noi il paesaggio.
Ma il tema del destino si compenetra presto con quello del soprannaturale, delle forze occulte che l'uomo non riesce a controllare, e allora entrambi trovano la propria espressione più puntuale nell'uso della profondità di campo, che diviene anch'essa un'autentica costante stilistica. La sequenza più esemplare, quasi programmatica, è quella del colloquio telefonico fra Brewster e Lazlo.
Il dialogo, appunto, verte sul rapporto fra scienza ed esoterismo.
Brewster: “Dal suo tono, mi sembra di capire che lei creda alle leggende di Dracula”.
Lazlo: “Nelle mie ricerche ho scoperto dei dati che non posso confutare completamente. Non dico di crederci ma, onestamente, non posso dire di non crederci”.
L'illuminazione, più rassicurante nella prima inquadratura, sottintende un diverso punto di vista sull'argomento, quello appunto di un medico di provincia che finora è sempre riuscito a spiegare tutto senza allontanarsi mai dal lume della ragione. Ma la composizione delle due inquadrature, com'è evidente, non è in nessun caso propriamente centrata sui personaggi, ma li colloca in uno spazio in cui acquistano pari peso anche gli oggetti. Le zone d'ombra, inoltre, accentuano il carattere quasi incombente dell'arredamento, come se in effetti le due stanze fossero pervase dalle presenze oscure evocate nel dialogo. L'uomo, in altre parole, divide l'universo con altre entità, vagamente minacciose proprio perché avvolte in un mistero che è innanzitutto metafisico.
Questo rilievo assegnato agli oggetti, che mette in discussione la centralità dell'uomo e la sua capacità di intervenire sulla realtà, diventa così uno dei principi stilistici del racconto, fungendo da cerniera fra i temi del destino e del soprannaturale. La scena in cui per la prima volta Brewster sospetta che Katherine possa esser caduta sotto l'influenza di Alucard, per esempio, è risolta con un'inquadratura dall'alto in cui il corrimano di una scala invade l'immagine, quasi ad anticipare il vortice degli eventi che si sta preparando (un'eco, forse, di certe composizioni firmate William Cameron Menzies?). O ancora nello stesso finale, quando Frank sta per distruggere Katherine, l'arredamento del corridoio sembra quasi diventare il vero protagonista dell'inquadratura, come se ormai non ci fosse più distinzione fra umano e non umano, quasi che Frank fosse ormai ridotto a un morto che cammina.
Ma al di là di queste raffinatezze, Siodmak approfitta anche del suo primo film “importante” per sbizzarrirsi in sequenze estremamente visionarie, allestendo uno show reel delle sue capacità tecniche. Scene perfettamente funzionali al racconto, ma in cui la macchina da presa, attraverso il pezzo di bravura, attira l'attenzione quanto e più dei personaggi. Il primo esempio davvero notevole è riservato proprio all'entrata in scena di Alucard, introdotto attraverso un complicato movimento di dolly che, partendo dalla festa in casa Caldwell, arriva all'esterno della villa, dove appostato nel buio troviamo appunto il vampiro pronto a colpire. L'apparizione innesca la suspense, ma soprattutto suggerisce anche qui come la figura umana sia sempre inserita in un orizzonte più vasto, continuamente minacciato da presenze a noi ignote.

Ma sono ancor più memorabili le sequenze in cui, aiutandosi anche con gli effetti speciali, Siodmak riesce a suggerire un'atmosfera onirica, quasi surreale. Sempre per il discorso autore/serialità, è qui necessaria una breve premessa: il gotico Universal degli anni Trenta e Quaranta, in fondo, è un genere costruito ancora su basi sostanzialmente positiviste, in cui cioè in ultima analisi i fantasmi dell'irrazionale finiscono sempre per esser domati dalla vittoriosa luce della scienza. Esistono i vampiri, d'accordo, ma anche loro obbediscono a precise norme fisiologiche: dormono di giorno, bevono sangue e rifuggono la croce. Accettate queste premesse, la lotta al soprannaturale è condotta perciò secondo criteri eminentemente logici, e il principio di causa ed effetto non è mai messo in discussione per come lo conosciamo. O almeno, così dovrebbe essere sulla carta, cioè nelle sceneggiature, perché poi in effetti la forza del genere nasce proprio da questa tensione costante che si instaura fra storia e immagini: mentre i finali sono quasi sempre rassicuranti, le visioni che ci restano negli occhi sono quelle più allucinate, pervase da elementi perturbanti. Dracula muore ucciso da van Helsing, ma gli occhi di Bela Lugosi che brillano sospesi nel buio continuano a perseguitarci anche dopo la fine del film, proprio per questa loro capacità allucinatoria. All'uscita dal castello la logica è salva, ma intanto la macchina da presa ha sottilmente minato la nostra percezione di spazio e tempo. È in questa direzione che Il figlio di Dracula resta tra i più indimenticabili titoli Universal di quegli anni, appunto per la maestria di Siodmak nel creare atmosfere deliranti, quasi da sogno a occhi aperti. Si veda la sequenza della resurrezione di Alucard dalla palude, con un altro elaborato movimento di macchina che combina insieme un sapore di ineluttabilità ma anche la sensazione tutta onirica del volo, della mancanza di peso. Altrettanto d'effetto è anche l'altra apparizione a sorpresa, con l'irrinunciabile faccia a faccia fra vampiro e vampirologo. Qui ritorna il discorso sullo spazio per come l'avevamo già affrontato, per cui ogni ambiente non è che un territorio alieno in cui il pericolo può manifestarsi in ogni istante, ma il materializzarsi dal nulla del vampiro – filmato “a vista”, senza stacchi apparenti – sembra violare qualsiasi teorema euclideo sulla contiguità degli spazi e sulla persistenza delle forme, proprio come avviene soltanto nei sogni. (Da notare che è anche il primo film in cui le trasformazioni di Dracula in pipistrello avvengono quasi sempre in campo.)
Naturalmente qui una parte del merito va al reparto effetti speciali della Universal, capitanato da John P. Fulton, responsabile anche di quell'autentico capolavoro surrealista che è L'uomo invisibile di James Whale (1933). Ma il trucco, in sé, non è che un espediente tecnico, che sarebbe abbastanza privo di interesse se non si inserisse in un impianto stilistico ben preciso, se non servisse quell'atmosfera e quella visione dell'universo create meticolosamente, inquadratura dopo inquadratura, dal regista. Se cerchiamo un padre per Il figlio di Dracula, è a Robert Siodmak che dobbiamo guardare.